Il soldato italiano che monta la guardia al nulla e che ne offre un commento nella didascalia è Carlo Manfrini, allora diciannovenne. Le foto di Manfrini sono state conservate per molti anni nella sua casa di Dozza, in provincia di Bologna, a millecinquecento chilometri dai luoghi fotografati nel 1942.
A differenza delle sue altre, numerosissime foto, che nella sua veste di ricercatore agronomo ha per lo più dedicato a piante, foglie e frutti aggrediti da malattie e da insetti, quelle del volumetto Diario di Russia. 13 giugno-12 novembre 1942, prima di essere pubblicate dall’editore Guaraldi nel 2010 non avevano mai fatto parte degli album di famiglia che i suoi figli sfogliavano con attenzione ed interesse nel dopoguerra, ma erano rimaste per anni, nel loro piccolo formato 6 per 6, dentro una scatola che veniva aperta alla loro curiosità solo in presenza del fotografo e dei suoi rassicuranti racconti, conditi d’ironia, con cui le commentava ai figli.
Manfrini partì da Padova il 13 giugno del 1942, aggregato alla Divisione Sforzesca che doveva raggiungere l’Ottava Armata a difesa del fronte sul Don. La Divisione fu inviata su vagoni merci e carri bestiame in cui presto i soldati furono colpiti dalla dissenteria. Attraversò l’Austria e la Slovacchia e passò per Leopoli, da dove poi si diresse, su strada, verso Kantemirovka.
Per consegnare gli ordini e tenere le comunicazioni tra l’inizio e la fine dell’autocolonna, Manfrini si spostava su una motocicletta Sertum 500 VL monocilindrica. Un giorno, per la stanchezza, cadde dalla motocicletta portaordini e per un pelo non fu investito dal camion che lo seguiva: il camion riuscì a frenare, ma non a impedire lo scontro con il camion precedente della colonna, subendo lo sfondamento del parabrezza con il cannone a traino dell’automezzo che lo precedeva. “Da quel giorno” – ha scritto – “fui assegnato al camion fureria”.
Molte foto testimoniano la vita di retrovia e quella contadina dell’estate del 1942, verso la quale è evidente l’attrazione avvertita dal soldato italiano dovuta alla familiarità con le proprie origini e i propri studi di agronomia.
C’è una mitologia, tutta italiana, riassunta dal motto: “Italiani, brava gente”, con la quale si è voluto edulcorare il comportamento dei fascisti e dei soldati italiani in guerra e la quale ha potuto beneficiare della grande ombra proiettata dal comportamento dei nazisti e della Wehrmacht. Contrariamente al mito, la storia ha dimostrato che anche l’esercito italiano ha commesso crimini di guerra in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Albania e in Jugoslavia. Per quanto io ne sappia, 12 sono i nominativi degli italiani incriminati in Russia, mai consegnati alle autorità sovietiche. Moltissimi furono invece quelli che pagarono sia per sé sia per altri.
Le abbiamo pagate care le colpe del fascismo, le colpe del popolo italiano: in Albania, in Africa, in Russia. Proprio così: le colpe del popolo italiano. Perché, chi più chi meno, tutti gli italiani erano fascisti. Tutti, fra un’adunata oceanica e l’altra, credevano nei destini imperiali, nella guerra santa. Anche i pochi che allora capivano, che sapevano, se non sono finiti in galera, sono colpevoli: colpevoli del loro silenzio! A pagare, a pagare combattendo, è stato l’esercito. Lasciamo perdere le cricche dei capi, dei grossi papaveri ambiziosi, dei carrieristi, dei delinquenti. Guardiamo invece l’esercito minuto, quello vero, quello della povera gente. Il mio esercito, quello che ho conosciuto. […] Combattevamo per una guerra sbagliata, e lo sapevamo. Morivano male i nostri soldati. I feriti li bendavano con la carta igienica. Senza armi, senza retrovie. Ecco la nostra guerra. Nei primi tempi i fanatici, i puri, morivano sorridendo. Poi anche i puri cominciarono a bestemmiare. Combattevamo per il fascismo, per l’Italia, per l’esercito, per noi stessi? Combattevamo da uomini e basta.
Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi, 1993 (prima edizione 1962)
Tra gli italiani che riuscirono a sopravvivere alla battaglia sul fronte russo e alla tragica ritirata del 1943, innumerevoli sono le testimonianze che hanno attestato la generosità e l’accoglienza che i russi riservarono loro.
Manfrini riuscì a salvarsi per una serie di circostanze che vale la pena di raccontare. Sua madre ebbe un sogno che le sembrò premonitore, nel quale vide il figlio morto. Implorò il cappellano militare di far avere al figlio una lettera in cui avvisarlo di un’operazione imminente, che si sarebbe rifiutata di fare se il figlio non fosse tornato. I dettagli della storia e del suo svolgimento, a questo punto, si sfumano e si perdono. Quello che si conosce è il risultato: una lettera, effettivamente ricevuta da Manfrini, in cui gli si comunicava, per errore, la falsa notizia della morte della madre, e la licenza che gli consentì di tornare in Italia.
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