A bor

József Rippl-Rónai: Mio padre e lo zio Piacsek bevendo vino rosso, 1907

“Non vorresti riassumere in un post – come i bravi – questa catena di idee e pubblicare tutta questa macedonia sul río Wang dove lo tradurrei anche in ungherese a mo' di specchio per i miei compatrioti?”
Studiolum

Ho la fortuna di trovarmi in quella fase privilegiata dell’apprendimento di una lingua straniera in cui, gattonando come i bambini, si esplora per la prima volta un ambiente totalmente ignoto. La lingua è l’ungherese, il che spiega – se escludiamo tokaji, paprika, gulasch e ussaro – la totalità dell’ignoranza. Data la base di partenza, vale a dire le quattro (4) parole dette, in fasi come questa, anche il più piccolo progresso, come l’apprendimento di una singola parola, può rappresentare, almeno in termini relativi, un avanzamento notevolissimo, da cui un senso di illimitata fiducia nel progresso. Una certa incoscienza e una spavalda inclinazione ad associare tra loro, più o meno giustificatamente, degli elementi trovati via via lungo il percorso intrapreso, magari affidandosi ai ricordi, non necessariamente fedeli, completano poi lo stato di privilegio di cui si gode in queste fasi.

Ho appena cominciato a gattonare grazie all’incoraggiamento di Studiolum (“impara l’ungherese in cinque minuti” – ed è noto che la conversione dell’unità di tempo ungherese in quella italiana richiede almeno un fattore yotta) partendo da una grammatica di base per stranieri: Hungarian: An Essential Grammar di Carol Rounds. Lo stato di privilegio cui ho fatto riferimento mi ha permesso di percepire fin da subito un carattere generale, un’atmosfera di fondo che non mi era mai capitato di assaporare in altri casi e che ora cercherò di restituire nel modo più concreto possibile. Nella grammatica ungherese non c’è nessun esempio che assomigli nemmeno vagamente al topos degli esempi di ogni grammatica tradizionale, che in inglese assume la forma: The pen is on the table. Vi si trovano piuttosto degli esempi di questo tenore:

Mit iszol a vacsorához? (Cosa berrai per cena?)

Nem tudom kinyitni az üveget. (Non riesco ad aprire la bottiglia.)

Ahelyett, hogy cukrot tenne a teába, egy kis rumot tett bele. (Invece di mettere zucchero nel tè, vi mise un po’ di rum.)

 Nem akarod megkóstolni ezt a vörösbort? (Non vuoi assaggiare questo vino rosso?)

 Dehogynem. (Certamente.)

Neked nem szabad tejet innod. (Non dovresti bere latte.)

Nagyon berúgott, hiszen egymaga megivott egy egész üveg bort. (Divenne molto ubriaco perché si scolò da solo un’intera bottiglia di vino.)

Elittuk az egész havi fizetését. (Ci siamo bevuti tutto il suo stipendio.)

Non si pensi neanche per un istante che quella offerta sia una selezione di esempi creata ad arte per dimostrare una tesi preconcetta: come potrei mai elaborare un preconcetto a partire da quattro (4) parole e nemmeno un verbo (proprio 0)? Per scongiurare in ogni caso qualsiasi pensiero di questo tipo, se non bastasse nemmeno la straordinarietà dell’ultimo esempio, invito a considerare il libro di testo Halló, itt Magyarország!, libro in cui, non dico in un capitolo qualunque e non dico nemmeno nel primo capitolo, ma fin dalla legenda posta a premessa, si mette subito in chiaro quale sia l’unica cosa che abbia senso mettere sul tavolo in Ungheria: a bor.


Insomma: simpatia immediata e incontenibile e, a ruota, un’inevitabile domanda: ma quanto si beve, in Ungheria? Si beve come un serbo, come mi pare ricordare dicano gli sloveni, i vicini di casa e anche non piccola parte degli abitanti del luogo che mi ha visto nascere e crescere, Trieste, dove pur si beve parecchio, si beve come un russo, come mi pare ricordare dicano in Serbia, si beve raggiungendo le vette del sublime, come Erofeev o, per evitare qualsiasi termine di paragone etnico, si beve semplicemente come una piria (imbuto, in italiano), come si usa dire in dialetto triestino o, sempre nello stesso dialetto, ma nella sua variante scherzosa dal suffisso slavizzante, come un piriavez (ubriacone)?

Niente di tutto ciò:

iszik, mint a kefekötő.

Si beve “come il fabbricante di spazzole”, mi ha fatto sapere Studiolum, aggiungendo una fonte poetica del 1844, quella di Sándor Petőfi in La vita sposata del sole e, subito dopo, una preghiera: “non chiedermi perché”.

Ed ecco che, rispettando il divieto di chiederlo a lui, mi sono trovata spedita dallo spazzolaio ungherese direttamente in Germania, da cui il paragone è partito e nella cui lingua ho avuto il piacere di abitare. È lì che si è iniziato ad attribuirgli una smodata capacità di bere (e di fumare): trinken wie ein Bürstenbinder o saufen wie ein Bürstenbinder (oltre a rauchen wie ein B.) sono infatti le espressioni perfettamente corrispondenti a quella ungherese segnalatami da chi mi sta generosamente ospitando. Solo che il fabbricante di spazzole pare sia del tutto innocente e che a lui si sia arrivati tramite un’associazione scherzosa col verbo bürsten.


Se è vero quello che si trova qui, infatti, il modo di dire tedesco deriverebbe dall’ambiente studentesco, ambiente di grandi bevute, ai tempi in cui gli studenti condividevano i soldi di tutta la comunità in una borsa (bursa, in latino). In particolare, pare poi che da bursa non siano solo derivati i termini tedeschi Burse e Bursch, con cui in passato si denominavano gli studenti, la loro vita comunitaria e anche l’ostello che li ospitava, ma anche bürsten, nel senso di spazzolare il bicchiere – qui mi sorreggono i fratelli Grimm –, quindi di bere. In base a questo percorso, il passaggio finale da bürsten a Bürstenbinder dovrebbe essere il frutto di un classico Witz di tipo associativo, per assonanza con il nome dell’incolpevole – e forse addirittura astemio – spazzolaio.


Resterebbe ancora da determinare, tra le inevitabili incertezze del caso disseminate qua e là, se in Ungheria il modo di dire tedesco sia stato importato da uno studente o da un professore ungherese che bazzicava per le università tedesche o se sia stato piuttosto esportato da un tedesco di Heidelberg in prematura fuga dalle ondate di turisti che avrebbero poi invaso la sua città o ancora, perché no, se sia stato portato dai tedeschi provenienti dalla zona di Ulm che nel 1700 si sono definitamente trasferiti in Ungheria, ad esempio quelli finiti a nord di Budapest, nel paese di Solymár/Schaumar, nella cui gazzetta riportano la loro versione in dialetto locale: Śaoft, wii ə Pieschtnpində, un link di cui, per i lettori che conoscono le meraviglie del blog che oggi mi ospita, è del tutto superfluo indicare lo scopritore.

Questo, però, non lo posso proprio determinare, perché la macedonia è un miscuglio che generalmente si prepara con la frutta che si ha e io, oggi, questa avevo. Da parte mia, è stato un piacere prepararla. Spero possa essere apprezzata dai lettori del río Wang, che so avere gusti ben più raffinati ed essere, almeno in queste pagine, viziatissimi.

4 comentarios:

Effe dijo...

Buongiorno Francesca,
questo battesimo su Rio Wang andrebbe ovviamente bagnato, magari con un calice di Spritz, ma poi toccherebbe disquisire su quale ne sia la ricetta autentica, e se il nome Spritz derivi da spritzen, e non si farebbe altro che aggiungere volume (anche alcolico) alla macedonia.
Una risposta, la mia, di benvenuto da parte dell'enclave italiana su questo blog-mondo.
F
p.s. la parola da digitare per poter pubblicare queste righe è, in questo momento, CAPHE, che potrebbe leggersi "caf(f)è", il che mi pare molto appropriato.

francesca dijo...

Buonasera Effe,

piacere. Grazie per il benvenuto - molto gradito - nonostante la prospettiva di festeggiare con dello Spritz sia svanita nel breve spazio di un paio di righe. Trovai questo blog per caso alla ricerca di una poesia: della poesia ricercata, nessuna traccia (per fortuna, continuo a ripetermi, per fortuna).

Studiolum dijo...

E molto giustamente. Il río Wang è appunto il magazzino delle poesie di cui non c’è nessuna traccia.

Effe dijo...

è anche una biblioteca di vite invisibili che solo qui e in pochi altri luoghi possono essere lette, viste, vissute.
(comunque gli ingredienti per lo Spritz li teniamo in fresco, non si sa mai)